Lo scorso weekend sono stata a Londra per seguire il Guardian Open Weekend, una due giorni piena di incontri (unico appunto: forse un po’ troppi!), dibattiti, chiacchiere intelligenti sul futuro del giornalismo online e in particolare del Guardian. Open era il nome, open è stato: oltre agli speech, i giornalisti del Guardian giravano tra la loro sede il King’s Space, distante pochi metri, riconoscibili grazie a un badge blu ed erano disponibili – ma davvero – a rispondere a ogni domanda, da “non riesco a collegarmi a twitter” a “tra quanti anni la carta sparirà ?”.
Prima considerazione: portare circa 5.000 visitatori – paganti – a seguire incontri sul presente e futuro del giornalismo, in uno dei pochi weekend di caldo e sole a Londra, è un risultato non da poco. Il pubblico era misto: qualche addetto ai lavori, molti giovani e studenti di giornalismo, molti lettori e abbonati del Guardian di tutte le età . Per loro stessa ammissione quelli del Guardian hanno copiato la formula da Libération; sarei curiosa di sapere quanti lettori e interessati potrebbe raccogliere un’iniziativa del genere in Italia.
L’editor in chief Alan Rusbridger, che ha introdotto un interessante incontro sul futuro del Guardian – “80% of our revenues are still coming from print but there’s a 20% less every year, it’s easy to see where we’re heading to”, riassume così le caratteristiche del giornalismo “aperto”:
Open journalism is journalism which is fully knitted into the web of information that exists in the world today. It links to it; sifts and filters it; collaborates with it and generally uses the ability of anyone to publish and share material to give a better account of the world.
Links, filters, collaborates, shares: direi che le parole chiave ci sono tutte. La differenza con quello che accade da noi è che lì oltre a teorizzarlo lo fanno pure. A proposito, date un’occhiata ai dati di febbraio del giornalismo online pubblicati da Audiweb e commentati qui.
Se vi interessa, qui trovate anche il decalogo del giornalismo open del Guardian, da leggere e mandare a memoria.
Nella stessa sezione ho trovato molto interessante l’intervento di Janine Gibson, Editor in chief del Guardian US che ha chiarito: “Non ci faremo risucchiare dall’ansia delle breaking news 24/7, a ogni costo. Il nostro valore aggiunto è diverso, il nostro patrimonio è un misto di brand e fiducia dei lettori”. E ha concluso:
Our journalism should be rich, slow, unique.
Slow, ebbene sì, anche e soprattutto online. Ne sono convinta: il giornalismo modello rullo compressore, copia incolla di agenzie non funziona e non funzionerà mai; meno è meglio, vedi anche l’esperimento di Salon, che ha aumentato i lettori diminuendo la quantità di aggiornamenti.
Stephen Abbott e Grace Dent hanno tenuto un’interessante incontro-lezione su twitter. L’account ufficiale del Guardian, mi ha spiegato Stephen, condivide circa 20 articoli al giorno; la percentuale di traffico che arriva da facebook è circa il 4%, da twitter il 2% “but it’s growing fast”. La decisione di aprire diversi account twitter del Guardian – News, Books, Tech, Media etc - a fianco del principale  è stata presa per dare a tutti i contenuti il giusto spazio ed evitare di ingolfare l’account primario con troppi update quotidiani.
Poi, lungo il Regent’s Canal (la sede del Guardian è pure in un posto bellissimo, va detto), ho incontrato Paul Lewis, Special Projects Editor, premiato come Reporter of the Year al British Press Awards 2010. Dopo avermi raccontato che il Guardian è sempre stato e sempre sarà pioniere dell’innovazione, il che ha garantito una transizione dei giornalisti dalla carta al web “easy and smooth”, beati loro, ha risposto a qualche mia domanda. Risposte illuminanti.
Il Guardian ha diversi account twitter ufficiali e in più voi giornalisti avete i vostri personali. Com’è la policy?
Il Guardian non impone alcuna sigla della testata: i nostri account sono nostri e basta. Ci sono delle guidelines ma sono molto leggere, lasciano grande libertà (e aggiunge: luckily). D’altra parte sarebbe assurdo scrivere sciocchezze: la nostra reputazione online di professionisti è importante, anche verso potenziali altri datori di lavoro. Perché dovremmo danneggiarla usando male il nostro account?
In effetti. Quindi giudichi twitter uno strumento indispensabile per il nostro lavoro?
Senz’altro. Gli account ufficiali del Guardian sono fondamentali ma è necessario che ognuno di noi ne abbia e ne usi uno personale.
Social Media is Social first, Media second.
L’interazione con i lettori è fondamentale e per crearla bisogna avere un account personale, non solo twittare anonimamente dietro il nome della testata.
Tu hai un ottimo posto al Guardian, molta esperienza, hai ricevuto premi prestigiosi. E sei così giovane…
Giovane? Ho compiuto trent’anni. Non mi definirei esattamente giovane.
E su quest’ultima frase vi lascio meditare, con l’ausilio del cartello qui sotto, fotografato sulla Tube: se proprio volete leggere carta, almeno non sporcate in giro.
La concezione dell’età anagrafica è molto particolare per i signori anglosassoni: proprio ieri, campo giornalistico sempre, mi è stato detto che 33 anni sono tanti e che ormai quello che è fatto è fatto.
A parte questo, la politica del Guardian è esemplare ma (il ma c’è sempre) è anche vero che in questo momento particolare per la stampa inglese sta beneficiando appunto di ciò che accade alle testate più grandi, risucchiate dal vortice del gossip: precorrono i tempi, o li cavalcano, consapevoli che in questo momento possono fare il grande salto rispetto alla concorrenza.
Inoltre il Guardian è anche (non vorrei sbagliare con i dati) l’unica testata londinese tra le grandi ad essere collegata strettamente con le università che formano giornalisti e da questo collegamento trae spunti e idee interessanti.
E comunque sono quasi certa (pronta a farmi smentire) che nel giro di poco lanceranno la versione paywall, è un po’ l’evoluzione naturale del loro modello :)
Links, filters, collaborates, shares: io ripartirei da qui. Parole che corrispondono a concetti di cui in Italia siamo ancora privi. Ed è in quest’assenza che risiede la nostra provincialità . Come quando giudichiamo un ragazzo di trent’anni ancora giovane: anche per me lo è, ma perchè vivo in un paese dove per diversi motivi, a trent’anni cominci a fare capolino nel mondo reale, mentre altrove già ti sbatti da quasi un lustro e a trent’anni ormai sei uomo fatto. Mi è piaciuto molto questo tuo articolo: hai portato una boccata d’aria fresca anche qui. Chissà che ventata dopo ventata, anche qualcosa qui si smuoverà .
il modello di open journalism e via discorrendo mi piace molto, così come la social interaction e il coinvolgimento “customer oriented”, se vogliamo, dei lettori. Sull’età anagrafica non mi pronuncio. Ho lavorato fuori, in Germania, in un’azienda giovane fresca dinamica e bla bla bla, e ho visto che non sempre dare spazio ai giovanissimi significhi riuscire a fare dell’impresa seria. All’estero saranno anche svezzati prima, ma non sempre “prima” significa “meglio”. Spesso manca la creatività , manca il problem solving, sono inquadrati in un modello di business soltanto e da là non si scappa. Inoltre, il giornalismo fuori è megaliberalizzato. Forse è un bene, ma di certo non si smazzano i due anni di apprendistato che ci smazziamo noi. E io, a 29 anni, sto facendo proprio quello, e se da un lato è una cosa seccante, dall’altra mi sta servendo, e chissà che dopo questi due anni col mio piccolo quotidiano locale non ne sappia di più dei neo-giornalisti trentenni uomini fatti del Guardian.
Veru, sono molto curiosa anche io, li osservo.
Clara, speriamo.
Giuseppe: ho iniziato a 20 anni e ho fatto tutta l’università scrivendo (da esterna, ovviamente!) per due quotidiani locali. Conosco bene l’importanza della gavetta e del praticantato, e nemmeno dico che più giovane sia necessariamente sinonimo di migliore. In UK si entra nel mondo del lavoro prima (Paul Lewis è entrato al Guardian a 23 anni: la sua gavetta l’ha fatta lì…). Però obbiettivamente, dopo aver girato parecchie redazioni un po’ come giornalista un po’ come formatrice, ti posso dire che un ricambio generazionale è assolutamente necessario, che la giovane età è spesso sintomo di maggiore elasticità mentale e prontezza, che questo modello di giornalismo e l’attuale organizzazione di molte redazioni (anche quelle online, il che è peggio) non funziona. E che inoltre da noi ottenere un contratto per il praticantato è quasi un miraggio e si tende molto spesso a sottopagare o non pagare per nulla i collaboratori, il che significa entrare in redazione a ben più di 30 anni, già bruciati e stanchi da anni di lavori precari.