Arrivo da due intense giornate di seminario organizzato da Redattore Sociale, il primo a Milano, con Terre di Mezzo e con la partecipazione di Affaritaliani.it (il prossimo appuntamento è con quello, storico, di Capodarco di Fermo a dicembre).
Il tema: come riuscire a fare informazione sociale in una città “crudele” come Milano.
Come lo scorso anno, dopo l’esperienza nelle Marche, mi sento da una parte rivitalizzata, felice di svolgere questa professione, rinforzata dall’incontro con tanti colleghi che stimo. Dall’altra sono perplessa. Siamo sempre a raccontarci le stesse cose, storie di abusivismo e precariato, e allora come riuscire a fare una vera informazione su temi sociali e di solidarietà quando il primo problema è bussare a cento porte per vendere un pezzo? E poi ridursi a scrivere quello che ti chiedono, quello che “va”, nella speranza di salire un gradino ed entrare nella fascia alta dei morti di fame? (Figurarsi se non lo so io che scrivo solitamente per i femminili, dove il sociale spesso è un colonnino che passa solo se c’è un’iniziativa benefica appoggiata da un Vip).
Questo per non parlare di altri temi emersi in questa due giorni, che letti tutti di fila fanno venire voglia di andare a insaponare la corda: ingerenza pressante della pubblicità , poco coraggio da parte degli editori, servizi fotografici svalutati o comprati a scatola chiusa, notizie “di moda” pompate per cavalcare campagne di odio xenofobo e così via.
Però, oltre al valore delle discussioni, a me personalmente è servito anche per comprendere meglio Milano, una città dove vivo a intermittenza da 8 anni, popolata di gente che, come me, “si sente in transito e non la ama”, come ha detto qualcuno ieri.
Comunque.
Dei tre workshops paralleli ho partecipato a quello sull’immigrazione con Fabrizio Gatti, il giornalista ormai famosissimo per le sue inchieste undercover su L’espresso (qui il link a quella sul Cpt di Lampedusa ), e Milena Santerini, docente di Pedagogia generale, che ci ha illuminato soprattutto sull’immigrazione di seconda e terza generazione, sulla situazione a volte esplosiva delle scuole: “Ci sono scuole elementari con il 45% di bambini stranieri: il risultato è che spesso i genitori italiani fanno cambiare scuola ai loro figli. E l’integrazione diventa impossibile anche per le nuove generazioni”.
Fabrizio Gatti mi è piaciuto moltissimo, anzi è piaciuto a tutti, tanto che durante il break non l’abbiamo nemmeno lasciato andare a prendere un caffè per assediarlo meglio. Non sono mancate le domande su “Ma come fai a preparare le tue inchieste“, alle quelli immagino abbia risposto centinaia di volte ma comunque non si è sottratto, con un’umiltà e una gentilezza davvero rare. Ma soprattutto è riuscito a chiarire con poche frasi la storia dell’immigrazione a Milano, una storia che non è certo nuova ma ha elementi di continuità con il passato, quando ad arrivare a frotte erano i lavoratori dal sud.
“Oggi non abbiamo fatto altro che sostituire il nemico: il posto del terrone è stato preso dall’extracomunitario”, ha riassunto. E per quanto riguarda l’informazione ha sottolineato che
“Non esiste ancora una vera obiettività nel trattare i temi dell’immigrazione sulla stampa. Se così fosse, le mie inchieste avrebbe dovuto scriverle un immigrato o un lavoratore nei campi pugliesi. Ma a loro, ancora, nessun caporedattore darebbe credito”.
La ricetta per favorire l’integrazione?
“Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione, credo che la televisione dovrebbe riscoprire il suo ruolo educativo per favorire l’integrazione linguistica, esattamente come fece dalla sua nascita fino agli anni 70. Purtroppo però la vera obiettività nel trattare questi temi senza gonfiarli o cavalcare l’onda della paura per il “diverso” sarà quando tra il pubblico di lettori ci saranno anche gli extracomunitari. Finché non sono un “target” degli editori, sono dimenticati. Per quanto riguarda la società , la risposta è una sola: incoraggiare la partecipazione degli immigrati alla vita civica con il diritto di voto“.
Nella tavola rotonda finale della prima giornata, un concetto è stato sottolineato soprattutto: l’esigenza di dare un volto, un nome, una storia quando si trattano i temi sociali su giornali e tv. Solo così è possibile coinvolgere, appassionare il lettore e soprattutto convincere chi decide cosa va in pagina della “giornalisticità ” di un tema.
Ancora una piccola annotazione: dei tre workshops previsti, quello sull’immigrazione e quello sulle periferie sono stati seguiti da molti colleghi. Il terzo, sui disabili, contava numerosi rappresentanti delle associazioni e un solo giornalista, come ha sottolineato Franco Bomprezzi, caporedattore di Agr. Forse che per noi “operatori dei media” esistono temi sociali di serie A e di serie B? Più “vendibili” o meno? Da rifletterci.
Infine, ieri sera ho intervistato al volo Lella Costa, come sempre generosa e disponibile, che è intervenuta per una chiacchierata con don Rigoldi, volto storico del volontariato milanese, e metterò presto online il risultato della nostra chiacchierata.
Rimando a domani invece le conclusioni del seminario, con un interessante dibattito fra Ferruccio De Bortoli, Massimo Rebotti di Radio Popolare, Ines Maggiolini del Tgr Lombardia, Francesco Anfossi di Famiglia Cristiana e Angelo Perrino di Affariitaliani.it, moderati da don Vinicio Albanesi.
“quando tra il pubblico di lettori ci saranno anche gli extracomunitari. Finché non sono un target degli editori, sono dimenticati”: penso sia profondamente vero (…e tanto triste). Un saluto, Leo