L’emergenza neve (vera, drammatica o presunta, come in alcune città chiuse preventivamente per maltempo quasi prima di vedere un fiocco) ha, come tutti gli eventi eccezionali e condivisi degli ultimi mesi, generato un nuovo interesse dei giornalisti della carta per twitter. Perché su twitter ci si scambiano informazioni da treni persi in steppe pesudosiberiane, annunci di scuole chiuse, lamentele per sindaci impreparati e call center trenitalia che non sanno che pesci prendere.
A seguire: paginate di giornali “di carta” zeppe di twit sull’argomento neve, per fare colore, per movimentare il pezzo, per far vedere che si conosce questo mezzo così alternativo. E polemiche, certo. Per twit usati male, tagliati, riprodotti senza permesso, come ricorda Alessandra Farabegoli che parla della necessità di corsi per insegnarne l’utilizzo o, verrebbe da dire se non facesse irrimediabilmente anni 90, la netiquette.
Allora, io non è che non sia d’accordo; di corsi ne ho tenuti tanti e, anche se non vertevano solo su twitter, la mezz’ora scarsa che sarebbe stata in programma per parlarne, soprattutto durante le ultime sessioni che ho tenuto al Corriere, diventava spesso un’ora, un’ora e mezza. L’interesse c’era, anche grazie allo sbarco in massa dei direttori e delle firme più prestigiose. E le reazioni erano diverse: chi voleva capire, chi lo usava già e voleva migliorare, chi lo definiva tutta fuffa, mezzo pericoloso privo di controllo, informazione lasciata in mano a non professionisti.
Non credo sia tanto questione di corsi per impararne la grammatica. I giornalisti, sarò anche di parte, d’accordo, ma sono dotati di un’intelligenza se non superiore, almeno nella media. Non credo che nessuno abbia difficoltà , dopo qualche ora o giorno di utilizzo, a capire cos’è un hashtag, cos’è una mention o un retweet. Non è, come sempre, questione di tecnologia. Non è roba per smanettoni. Mia mamma, che ha 65 anni e nessuna laurea, ha aperto il suo account da sola, per curiosità , e lo usa poco, ma bene.
E’ questione di dare a twitter dignità di mezzo di comunicazione e di dare soprattutto a chi twitta dignità di emissario di comunicazione, di produttore di informazione. Per arrivare a questo scatto, a questo cambio di mentalità , non ci sono corsi che tengano e lo dico contro il mio interesse, dato che sono parte del mio lavoro. Perché, ad esempio, sono finita anche io sul paginone di Repubblica citato da Alessandra con un mio twit sul call center Trenitalia. E in quel momento non ero una collega (chi mi ha messo in pagina non si è domandato chi fossi né ha pensato a leggere la mia bio su twitter, immagino); facevo parte della massa indistinta che produce il background noise nel quale, spesso con il fiato sul collo del caporedattore, in chiusura, un malcapitato è costretto a pescare facendo frenetiche ricerche per riempire un colonnino. Avessero dovuto citare un mio pezzo, firmato, su un organo di stampa tradizionale, si sarebbero comportati diversamente, credo. Ma una volta che scrivi su twitter, sei nel calderone; tutto è di tutti, si può tagliare, copiare, stravolgere, piegare alle esigenze della tesi che l’articolo vuole dimostrare. Niente di nuovo: la stessa cosa che è successa e succede con le fotografie, con i post sui blog.
Per cui, detto che ai miei colleghi della carta, pur con le pecche, le idiosincrasie, le resistenze verso il nuovo e tutto ciò che sa di “tecnologia”, va la mia solidarietà , perché negli ultimi anni non credo di aver visto un’altra categoria così tanto giudicata, vivisezionata, osservata in attesa che inciampi, riempita di consigli non richiesti eccetera (forse solo i commissari tecnici della nazionale, ma ormai neanche più tanto), non credo che un corso per insegnare loro a usare twitter possa servire più di tanto.
O meglio: può essere un inizio, se proprio sono digiuni. Poi, imparate le tre regolette, bisogna usarlo, costantemente, quotidianamente e non solo quando serve per aggiungere una battuta a un pezzo. Serve entrare nel flusso, condividere, essere presenti, crearsi liste per ripulire la timeline e un network di fonti fidate, così da ridurre il problema del ‘non si sa a chi credere’. Serve farlo diventare uno strumento di lavoro sia prima di scrivere, per raccogliere informazioni, che dopo, per promuovere e condividere quello che si è scritto.
Insomma, esattamente come ogni altro nuovo strumento offerto dalla rete, serve che diventi una strada a due corsie, per dare e prendere, parlare e ascoltare. Il problema è sempre quello: ascoltare, condividere. Forse molti giornalisti, perfettamente in grado di capire che cos’è un hashtag, non hanno alcuna voglia di chiudere il microfono per aprire anche il ricevitore. Non ancora, almeno.
Barbara guarda, sono d’accordo con te quando dici che capire la sintassi degli hashtag e dei RT non è sufficiente: del resto, l’osservazione “non servirebbe un corso, potresti arrivarci da solo ragionando e leggendo e poi praticando” vale per molte delle cose su cui organizziamo dei corsi (come scrivere per il web, come usare i social media di turno, etc), non trovi? Credo che il senso di un eventuale “corso di twitter per giornalisti” sia soprattutto il mettere a fuoco, oltre che la grammatica, anche dei principi più importanti tipo “chiudi il microfono e apri il ricevitore”.
Sicuramente; però se per altri temi, a mio parere, è più facile mandare un corsista a casa con delle indicazioni pratiche, per twitter per i giornalisti è più difficile, non perché le indicazioni pratiche non le recepiscano ma perché c’è una maggiore chiusura mentale. Con i corsi alle aziende è diverso, ma data la valenza informativa di twitter, parlarne ai giornalisti è due volte più difficile, due volte più delicato. I principi importanti, come ascoltare e dialogare, si possono ripetere e spiegare, ma se la maggior parte delle persone che ti ascolta è convinta che quella sia tutta fuffa buona a riempire un colonnino in chiusura, purtroppo non basta un corso. O meglio: un corso può dare lo stimolo iniziale, poi ognuno metabolizzerà e interpreterà le informazioni come crede. Per esperienza, se uno si presenta dicendo: non ci credo, è tutta fuffa, raramente tornerà a casa convinto del contrario, tutto lì.
Concordo con un approccio scettico verso nuovi canali, occorre conoscerli e, come sempre nella rete, resta a carico dell’utente la verifica delle informazioni reperite via social… “Aprire il ricevitore” è però parte dell’essenza del web 2.0, l’interazione con altri utenti, siano essi giornalisti o persone comuni che vogliono esprimere la loro. Forse è semplice, e anche un po’ di parte, per me affermarlo in quanto sono stati proprio i blog e i social media a darmi l’opportunità di sfruttare una laurea e di esprimere la mia, almeno in rete la chiusura mentale è meno blindata.